Dai metalli ai solventi, armadio a rischio veleni
"Test con sudore e saliva, così garantiamo sicurezza"
Abiti e scarpe, ecco le sostanze da evitare
"Le soluzioni ci sono, ma costano"

Dai metalli ai solventi, armadio a rischio veleni
di MONICA RUBINO
ROMA - Dal blocco delle auto all'allarme glifosato, dalle polveri sottili alle mozzarelle blu, la qualità dell'aria e del cibo sono spesso al centro delle nostre preoccupazioni. Oltre a respirare e mangiare c'è un'altra funzione della nostra vita quotidiana dalla quale non possiamo fare a meno che non gode però di altrettanta attenzione: vestirci. Eppure le insidie nascoste in ciò che indossiamo ogni giorno, dall'intimo all'impermeabile, purtroppo non sono inferiori al pericolo di "intossicarci" un po' alla volta che corriamo quando attraversiamo una città o quando ci sediamo a tavola per la cena. Negli abiti si nasconde infatti una subdola minaccia spesso sottovalutata rappresentata da elementi chimici dai nomi complicati: ftalati, formaldeide, metalli pesanti, solventi, coloranti tossici.

Numeri allarmanti. Non è un caso che il Rapex, il sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari, metta al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio proprio vestiti e capi di moda e che il 7-8% delle patologie dermatologiche, stando ai risultati di uno studio commissionato dalla Commissione Ue (Chemical substances in textile products and allergic reactions) siano dovute ai vestiti che indossiamo. Secondo dati elaborati da Altrocononsumo, l'industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, dopo quella che impiega fonti fossili per produrre energia e ricorre ad oltre duemila sostanze chimiche, molte delle quali dannose non solo per la salute ma anche per l'ambiente. Greenpeace dal canto suo ha testato 40 prodotti di abbigliamento e attrezzature oudoor (giacche, scarpe, tende, zaini, spacchi a pelo e persino corde), acquistati in 19 Paesei, trovando tracce di Pfc nel 90% degli articoli. Si tratta di sostanze usate per impermeabilizzare che si degradano con molta difficoltà, rimangono nell'ambiente per centinatia di anni e sono dannose per la salute. Tra le aziende finite sotto accusa anche marchi prestigiosi come The North Face, Salewa e Mammut.
Pressing sulle aziende. Accanto a questa campagna di test, Grenpeace affianca da anni l'attività di promozione dello standard "Detox" per una produzione di filati e tessuti senza sostanze tossiche, al quale a marzo hanno aderito cinque aziende tessili italiane, che si aggiungono ad altri 34 ditte internazionali e venti aziende del distretto di Prato. "Al momento i marchi che hanno sottoscritto la nostra campagna – spiega l’associazione ambientalista – rappresentano il 15 per cento della produzione tessile mondiale in termini di fatturato. Tra loro ci sono ad esempio i gruppi Miroglio e Inditex, insieme a grandi brand internazionali come Valentino, Adidas, H&M e Burberry".

Sequestri rari. Quello della sicurezza dei capi di abbigliamento è insoma un problema che le associazioni ambientaliste e quelle dei consumatori denunciano da tempo senza trovare adeguato ascolto, salvo che in occasione di eventi eclatanti come il ritiro di pigiami per bambini risultati tossici o i risultati dei test che nel 2013 dimostrarono la presenza nelle parti in pelliccia di alcuni piumini e cappottini per i più piccoli di sostanze vietate. Il caso finì sulla scrivania del pubblico ministero Raffaele Guariniello della Procura di Torino e i capi vennero posti sotto sequestro. La verità è che le leggi nel settore tessile sono obsolete e carenti. Oltre che frammentate: tanti singoli provvedimenti per un numero ristretto di sostanze potenzialmente tossiche (vedi infografica), non compendiati in un testo unico nemmeno a livello europeo. Da noi i controlli da parte di Nas, Asl e ministero della Salute avvengono sempre a posteriori, cioè solo se è il cittadino a segnalare il caso, presumibilmente dopo averne già subito le conseguenze sulla propria pelle in termini di reazioni allergiche ad esempio. E nemmeno il marchio made in Italy è di per sé garanzia di qualità, dal momento che include prodotti confezionati in Italia ma con tessuti importanti dalla Cina o da altri Paesi extraeuropei.

Controlli complicati. "I controlli sono sicuramente molto limitati rispetto alla mole di articoli circolanti – ci spiega Mauro Rossetti, direttore dell’associazione Tessile e Salute, il terminale tecnico nazionale del ministero della Salute per la tutela dei consumatori - ma sono anche gli unici che vengono fatti in Italia. Da noi il riferimento normativo generico è il Codice del Consumo, che vieta di immettere in commercio un articolo se pericoloso. Ma non fornisce indicazioni né alle aziende né a chi deve fare i le verifiche". Anche il regolamento europeo Reach che stabilisce i criteri per l'uso delle sostanze chimiche nell'Unione Europea ha maglie estremamente larghe per quanto riguarda le restrizioni alla presenza di sostanze pericolose negli articoli tessili e calzaturieri.

La falla dell'import. "Proprio a causa del vuoto normativo - continua Rossetti - abbiamo contribuito alla pubblicazione nel 2010 della norma Uni/Tr 11359sulla gestione della sicurezza degli articoli di abbigliamento che, al momento, è l’unico documento normativo sistematico sulla materia. Il problema di fondo è che il mercato europeo in questo settore è ricco di complicazioni nell'export ma risulta totalmente aperto nell’import. In pratica ci arriva di tutto, siamo invasi da capi d'abbigliamento che vengono importati da paesi – come la Cina e l’Est asiatico - in cui l'uso di coloranti e altre sostanze tossiche è ancora diffuso". L'importatore, infatti, non è tenuto a verificare come avviene la produzione o quali sostanze vengono utilizzate. E allora, come tutelarsi? "L'unica soluzione – conclude il direttore di Tessile e Salute – è garantire la completa tracciabilità e trasparenza della filiera e promuovere nel nostro paese una chimica sostenibile".

La strada della certificazione. In mancanza di regole certe, le aziende tessili che hanno più a cuore la salute dei clienti si organizzano da sole. Se, come abbiamo visto, grandi gruppi dell'abbigliamento hanno sottoscritto lo standard di Greenpeace, altri, come la grande distribuzione Coop, pretendono che i loro prodotti siano sottoposti a una certificazione volontaria, l'Oeko-Tex, che ha lo scopo di controllare la presenza di sostanze nocive nei tessuti e fornire quindi tramite l'apposito marchio ai consumatori la garanzia che i capi sono stati realizzati secondo criteri ecologici e di prevenzione a tutela del consumatore.

Colpito anche il settore moda. Anche la Camera nazionale della moda italiana, con il sostegno di Sistema moda Italia, ossia le aziende del settore che aderiscono a Confindustria, ha preso provvedimenti autonomamente. Quest’anno, durante la settimana della moda tra fine febbraio e inizio marzo, a Milano sono state promosse le linee guida sui requisiti tossicologici per gli articoli di abbigliamento. "Da tempo spingiamo sul concetto di sostenibilità – spiega Guido Bottini responsabile Tecnologia e Ambiente di Sistema moda Italia – il nostro impegno è quello di eliminare, laddove tecnicamente possibile e realmente sostenibile, determinate sostanze pericolose e migliorare i processi produttivi esistenti. Tra le strategie già in atto il controllo della catena di fornitura, ovvero la sicurezza dei prodotti nelle varie fasi di realizzazione, trasformazione e trasporto".

Manuale di autodifesa. Alla luce di tutto ciò, come difendersi concretamente? In primo luogo leggendo bene le etichette e andando alla ricerca della qualità, che non necessariamente si trova in un prodotto costoso. "Premesso che la cosa migliore in assoluto sarebbe comprare meno abbigliamento - consiglia Rita Dalla Rosa, autrice del libro 'Vestiti che fanno male' (Editore Terre di mezzo) - l'ideale è un prodotto di fascia media: né griffato, né fast fashion 'usa e getta'. I capi realizzati in Italia o in Europa, tendenzialmente, sono più sicuri". Altri consigli spiccioli ma utili: "Evitare, specie per gli indumenti intimi, i colori scuri che possono trasmigrare sulla pelle più facilmente a causa del sudore. Lavare sempre gli abiti appena comprati: spesso hanno fatto lunghi viaggi e sono stati riempiti di antiparassitari. E ovviamente – conclude Dalla Rosa - usare detersivi poco aggressivi, possibilmente ecobio".

"Test con sudore e saliva", così funziona la caccia ai veleni negli abiti


Abiti e scarpe, ecco le sostanze da evitare
di MONICA RUBINO
ROMA - Quella dei capi di abbigliamento è una filiera molto lunga, nella quale l'indumento è stato trattato, impregnato, imbevuto, vaporizzato con i più svariati prodotti chimici. Un bombardamento che lascerà sul nostro vestito tracce più o meno elevate di residui chimici e metalli pesanti come cromo, nichel, cadmio, piombo, mercurio, ma anche formaldeide, coloranti allergenici, clorofenoli e altro ancora.

Ecco un elenco di sostanze oggetto di ricerca e di studi a livello internazionale che hanno portato all'emanazione di specifiche normative europee per vietarne o limitarne l’utilizzo, essendo fortemente sospettate di avere effetti tossici o cancerogeni.

Coloranti azoici. Detti anche azocoloranti, derivano formalmente dall’azobenzene. Presentano colori brillanti e requisiti tintoriali favorevoli anche se, rispetto ad altri coloranti, sono meno stabili alla luce, al lavaggio e al candeggio. Sono però poco costosi per cui sono largamente impiegati. In Europa il loro uso è vietato dal 2002 (Direttiva 2002/61), perché possono rilasciare ammine aromatiche potenzialmente cancerogene.
 
Nichel. Non pensate solo a quello che si vede, come bottoni, fibbie, borchie o zip. Nelle analisi fatte su abiti sospettati di aver provocato problemi alla pelle, capita spesso di trovare tracce consistenti di nichel rilasciato dai coloranti usati per tingere. Le norme europee ne vietano i residui sui capi di vestiario, perché fortemente allergizzante.

Carrier alogenati. Sostanze organo-clorurate che vengono utilizzate per consentire la tintura a bassa temperatura del poliestere e delle sue miste. Sospettati di essere cancerogeni per l’uomo, in Europa ne è stato vietato l’impiego.

Formaldeide. Gas incolore dall'odore penetrante, ha la proprietà di uccidere batteri, funghi e virus, perciò viene largamente impiegato come disinfettante e conservante in moltissime produzioni industriali: mobili, vernici, truciolati, colle, detersivi, materiali isolanti e, appunto, nel settore tessile. Essendo un gas, viene rilasciato nell’aria, provocando irritazioni e bruciori a occhi, naso e gola, ma anche cefalee, stanchezza e malessere generale. È solubile nell’acqua, perciò i lavaggi ne riducono la concentrazione fino alla totale scomparsa.
 
Ftalati. Vengono aggiunti alle materie plastiche per migliorarne la flessibilità e la morbidezza. Non essendo legati chimicamente alla plastica, possono facilmente "migrare" e depositarsi sulla pelle, essere inalati o ingeriti. Si sospetta che alcuni di essi agiscano come interferenti endocrini, cioè creino scompensi ormonali e danneggino lo sviluppo dei nascituri. In campo tessile sono usati per le stampe di scritte o disegni applicate a magliette, pigiamini, specie nell’abbigliamento dei più piccoli. Se la stampa si "screpola" vuol dire che contiene pochi ftalati, viceversa una stampa che resta sempre morbida e inalterata ne contiene molti. L’Unione europea ha classificato due tipi di ftalati (il Deph e il Dpb) come "tossici per la riproduzione" perché dai test condotti su animali emerge che riducono la fertilità maschile. In tutti gli articoli destinati all’infanzia, indumenti compresi, i residui non devono superare lo 0,001%.
 
Clorofenoli Pcp, Tpc e relativi sali. Composti biocidi utilizzabili come antimicrobici e antimuffa prima dell’immagazzinaggio e del trasporto; vengono anche impiegati come conservanti per appretti e detergenti, nonché come componenti di paste per la stampa dei tessuti. Secondo le norme europee possono essere presenti solo in tracce limitate sul prodotto finito.

Antiparassitari. Tracce potrebbero essere presenti soprattutto sui capi in fibre naturali. Non sono, come molti credono, i residui della enorme quantità di pesticidi usati nella coltivazione del cotone (quelli restano nell'ambiente, ma si perdono nella lavorazione dei tessuti). Derivano dalle dosi massicce usate per "sanificare" i container che trasportano i capi di abbigliamento da una parte all'altra del globo.

Paraffine clorurate a catena corta (SCCPs). Sono usate nell'industria tessile come ritardanti di fiamma e agenti di rifinitura per la pelle e i tessuti. Sono altamente tossiche per gli organismi acquatici, non si degradano rapidamente nell’ambiente e hanno un'elevata potenzialità di accumulo negli organismi viventi. Il loro uso in alcune applicazioni è stato ristretto nell’Ue dal 2004.

Solventi clorurati. I solventi clorurati come il tricloroetano (TCE) sono utilizzati nell'industria tessile per sciogliere altre sostanze in fase di produzione e per la pulizia dei tessuti. Il TCE è una sostanza dannosa per l'ozono che può persistere nell'ambiente. È anche conosciuto per gli effetti su sistema nervoso, fegato e reni. Dal 2008 l'Europa ha drasticamente ristretto l'uso del TCE sia nei prodotti che nel lavaggio dei tessuti.

Metalli pesanti. Cadmio, Piombo, Mercurio, Cromo VI. I metalli pesanti come cadmio, piombo e mercurio vengono utilizzati in alcuni coloranti e pigmenti. Questi metalli possono accumularsi nel corpo per molto tempo e sono altamente tossici, con effetti irreversibili, inclusi i danni al sistema nervoso (piombo e mercurio) o al fegato (cadmio). Il cadmio è anche noto per provocare il cancro. Il cromo VI (esavalente) è utilizzato in alcuni processi tessili e conciari dell’industria calzaturiera: è fortemente tossico, anche a basse concentrazioni, per molti organismi acquatici. Dal primo maggio 2015 l'Ue ha vietato la vendita di scarpe e pelletteria che superino i 3 mg/kg del metallo. Anche cadmio, mercurio e piombo sono stati classificati come 'sostanze pericolose prioritarie' ai sensi della normativa dell’Unione europea sulle acque e sottoposti a rigorose restrizioni.
"Le soluzioni ci sono, ma costano"
di VITO DE CEGLIA
MILANO - "Ormai, tutte le imprese chimiche italiane si sono dotate di un codice di autoregolamentazione e questo, insieme al rispetto delle leggi vigenti e delle esigenze del sistema moda, garantisce il consumatore. Quello che si potrebbe fare ulteriormente è un’attività di informazione alla filiera e al consumatore sui rischi potenziali e sull’impiego delle aziende a superarli". Roberto Pasini, presidente di Dye-staff, consorzio che raduna 13 aziende dei coloranti per il tessile, la carta e il cuoio con un fatturato complessivo di circa 90 milioni di euro l’anno e 260 dipendenti, spiega così la posizione dell'industria chimica davanti ai ciclici allarmi sulla sicurezza per la salute dei vestiti che indossiamo.

"E’ giusto promuovere l’utilizzo di sostanze chimiche meno inquinanti e nocive possibili – sottolinea Pasini - ma ciò dovrebbe essere fatto in condizioni economicamente sostenibili per le Pmi del settore, che rappresentano l’80% del mercato. Anche perché per produrre a basso impatto i costi aumentano del 30-40%" In verità, passi in avanti le imprese del comparto, quelle associate aFederchimica, li hanno fatti da tempo. E continuano a farli: ne è un esempio il progetto, condiviso con la Camera della Moda e con altri attori della filiera, per creare un unico capitolato di sostenibilità. "Ma è uno step in più: perché la normativa italiana è già oggi una delle più stringenti che c’è in materia di sostanze nocive", osserva Maurizio Colombo, coordinatore del gruppo di lavoro di Federchimica che segue da vicino i regolamenti Ue (Reach e Clp) in materia di sostanze tossiche.

All’interno del comparto moda, bisogna poi considerare tutto il mondo del cuoio e della pelle che è tra i più importanti a livello mondiale. "Ricordo che questo comparto valorizza al meglio quello che altrimenti sarebbe un residuo di filiera dell’allevamento", aggiunge ancora Colombo. In che modo? "Attraverso un processo antico – risponde - che si è sempre più evoluto con trattamenti specifici che prevedono l’impiego di prodotti chimici per trattare pelli grezze, per garantire la lavorabilità e morbidezza, per dare il colore che corrisponde ai dettami della moda e delle richieste di arredamento, per ottenere quegli effetti di lucentezza o gli effetti particolari che troviamo, ad esempio, nelle calzature. I nostri prodotti hanno caratteristiche di qualità che vengono riconosciute in tutto il mondo"

Non basta, però. La qualità, spesso, non paga. A tenere sotto scacco le nostre imprese è l'agguerrita concorrenza degli asiatici. Non a caso, le fibre chimiche (dette anche "man-made"), che rivestono oggi il 70% dei consumi mondiali di fibre tessili, arrivano in buona parte dall'Estremo Oriente. E il primo produttore, con una quota del 66%, è la Cina che esporta in Europa prodotti meno costosi e già trattati con dei coloranti. Ma anche potenzialmente meno sicuri e che le aziende di moda o di altri comparti del mondo tessile e del cuoio potrebbero ritenere più convenienti.

Fenomeno, quello della concorrenza sleale, che potrebbe allargarsi a macchia d’olio anche a causa del regolamento europeo Reach (Registration, Evaluation, Authorisation of Chemicals), che mira a creare un registro delle sostanze chimiche  prodotte e distribuite in Europa e, quindi, anche in Italia. Entro il 2018 questo processo finirà e si prevede che avremo alla fine registrato circa 30mila sostanze chimiche, con una maggiore conoscenza e consapevolezza per utilizzarli in maniera sempre più sicura.

"Con il Reach – conclude Pasini - dovremmo registrare tra i 200 e i 500 coloranti per azienda. Il costo medio di ognuno di essi è di 30mila euro, in alcuni casi si può arrivare fino a 200mila euro. Meno sono i registranti, più costa la registrazione. E’ un meccanismo che il regolamento fa funzionare così. E quindi si tratta di un problema di sostenibilità finanziaria per le Pmi italiane, ma non solo".