ma che davero George Clooney s'è sposato?

Non ce ne siamo mica accorti in Italia!

La rai non ha proprio dato copertura dell'evento e il canal grande non è stato bloccato per il matrimonio dell'attore.

Qua si parla solo dei problemi italiani, di come stanno i greci, gli spagnoli e i portoghesi.

Si fanno lunghe interviste ai disoccupati, si analizzano i distretti industriali allo sfascio, si fanno reportage sull'evasione, si parla dei problemi di tutti e  e i canali di stato lo fanno sempre, mica ci si gingilla col mega spottone elettorale simile ad un trailer per un film featuring George e Amal, noooo.

Non ne abbiamo saputo nulla dell'evento, tanto meno s'è saputo di cosa facessero e quando, insomma tutto è stato fatto in silenzio. E magari lo fosse stato!

Se la Ue diventa una dittatura






di Luciano Gallino, da Repubblica, 23 settembre 2014





«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa — una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato — e spero lo abbiano capito nel modo giusto — di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo di Firenze nel giugno 2010.

Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita — non prevista nemmeno dai trattati Ue — della sovranità degli Stati stessi. Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche. Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact , che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale». I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno — la modifica dell’art. 81 della Costituzione.

Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio. L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa. Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.

Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite. La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.

Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono — nientemeno — che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.
Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati. 
Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo — nemmeno il Parlamento Europeo — che possa interferire con quanto tale gruppo decide.

Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione — come vari giuristi hanno messo in luce — viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce — meglio se sono tante — per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?

«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa — una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato — e spero lo abbiano capito nel modo giusto — di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo. Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo — nemmeno il Parlamento Europeo — che possa interferire con quanto tale gruppo decide.

Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione — come vari giuristi hanno messo in luce — viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, di Firenze nel giugno 2010.

Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita — non prevista nemmeno dai trattati Ue — della sovranità degli Stati stessi. Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche. Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact , che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale». I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno — la modifica dell’art. 81 della Costituzione.

Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio. L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa. Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.

Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite. La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.

Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono — nientemeno — che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.

Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati. quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce — meglio se sono tante — per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?


(23 settembre 2014)

Istat: il terzo trimestre dell'anno sarà ancora in recessione

da: http://www.repubblica.it/economia/2014/09/30/news/istat_recessione_terzo_trimestre-97013481/?ref=HREA-1

Possibile il sostegno alle esportazioni dall'euro debole sul dollaro. Nuovo allarme sul mercato del lavoro: "La prolungata scarsità di posti disponibili" significa che la disoccupazione sta diventando strutturale. Prevista inflazione vicina a zero ancora a lungo


MILANO - Non lo dice apertamente indicando numeri e variazioni percentuali, ma a leggere la nota mensile dell'Istat si capisce che anche nel terzo periodo dell'anno, quello da luglio a settembre, l'economia italiana ha continuato a perdere colpi. L'andamento del Prodotto interno lordo (Pil), quindi, dovrebbe restare in territorio negativo. "L'indicatore composito anticipatore, aggiornato a luglio e costruito a partire da un insieme di variabili (qualitative e quantitative) selezionate in base alla capacità di anticipare le fasi del ciclo economico, è in rallentamento, suggerendo una nuova flessione del Pil nel terzo trimestre dell'anno", dice l'Istituto di statistica che oggi ha rilasciato altri dati negativi per quanto riguarda la deflazione e la disoccupazione giovanile.

D'altra parte, che l'intero 2014 si avvii ad andare in archivio con il segno "meno" è ormai assodato: lo stesso aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza sul tavolo del Consiglio dei Ministri, dovrebbe recepire una previsione di recessione per lo 0,2 o 0,3% del Pil. Nella sua analisi, l'Istat ricorda che un supporto alla ripresa potrà arrivare dall'indebolimento dell'euro, che riflette l'azione della Bce da un
lato e la forza della ripresa americana, che sostiene il dollaro, dall'altro. "Continua la fase di debolezza ciclica dell'economia italiana che si accompagna al rallentamento dell'area euro", dice infatti l'Istituto sottolineando poi che "il deprezzamento del cambio dell'euro verso il dollaro porterebbe ad una ripresa delle esportazioni". 

Secondo gli economisti, "il deterioramento dei ritmi produttivi riflette la carenza di domanda interna che colpisce soprattutto gli investimenti". Nel rapporto si evidenzia che "negli ultimi due mesi, la fiducia delle imprese italiane è arretrata sui valori di inizio anno, con perdite più marcate nei settori dei servizi".

Un nuovo allarme arriva in merito al mercato del lavoro. Dopo aver certificato un tasso di disoccupazione al 12,3%, ma con il record sopra il 44% per i giovani, l'Istat aggiunge che ormai il "tasso di posti vacanti permane su livelli molto bassi, a sottolineare la prolungata scarsità di posti di lavoro disponibili che sembra divenire una caratteristica strutturale".

Difficile trovare spunti positivi pure sul fronte della dinamica dei prezzi: sarà ancora bassa l'inflazione nei prossimi mesi. Nella nota sull'andamento dell'economia italiana si legge che "nel complesso, dall'inizio del processo l'inflazione è diminuita di 3,3 punti percentuali, di cui 0,8 nel corso di quest'anno" e ancora: "Questi sviluppi rendono possibile il permanere dell'inflazione italiana su livelli vicini allo zero nei prossimi mesi".

Stop ai fondi Ue per la fame colpa di Germania e Italia “Così 4 milioni di persone adesso sono senza aiuti”

da http://www.repubblica.it/economia/2014/09/21/news/stop_fondi_ue_per_lotta_alla_fame-96292692/

DOPO una lunga carriera come maestra, di recente Cristina Danese ha iniziato a notare qualcosa che le ricorda l’infanzia: bambini affamati fra i banchi di scuola, a Milano. Quello che questa insegnante non sa è che la malnutrizione che grava su milioni di persone nell’Italia del 2014 non è solo frutto della crisi più lunga nella storia nazionale. È anche uno scandalo politico, consumato nel silenzio, che chiama in causa molti protagonisti: la burocrazia e il governo, lenti nel chiedere a Bruxelles le centinaia di milioni di euro che spettano all’Italia per la lotta contro la fame; il governo precedente, che ha dedicato poco più che spiccioli all’emergenza alimentare proprio mentre questa stava esplodendo e gli aiuti europei stavano per bloccarsi; e il governo di Berlino, impegnato a decurtare ogni sostegno della Ue agli indigenti nel momento in cui l’Europa brucia nella recessione e nei sacrifici chiesti ai cittadini per uscirne.

Cristina Danese vive a Milano dal 1960, quando arrivò dal Veneto più o meno alla stessa età che hanno i suoi allievi di quest’anno. E poiché ricorda la cocente vergogna di sua madre quando lei al mattino doveva andare a scuola senza aver cenato la sera prima, cerca di muoversi con tatto. Dalla mensa dell’istituto Rodari di Greco, a Milano, ogni giorno ha iniziato a riportare in classe sacchetti di pane e frutta e li offre in modo casuale. «Sono avanzati – dice – qualcuno li vuole portare a casa?». Sa che sempre gli stessi quattro, tutti figli di italiani, alzeranno la mano.

Mille chilometri più a sud il 2014 invece era iniziato bene per Rosetta De Luca, di Cosenza. Aveva presentato domanda per una casa popolare nel 1985 e quest’anno finalmente il Comune l’ha chiamata per darle l’appartamento dove ora vive con tre dei suoi cinque figli. È a due passi dal magnifico Duomo medievale. Subito dopo però si è presentato un problema: improvvisamente la signora De Luca ha smesso di ricevere i pacchi del Banco alimentare, la più grande piattaforma italiana di distribuzione di cibo agli indigenti. Di solito le buste contenevano pasta, legumi, biscotti, olio, sugo, latte. Per una disoccupata di 48 anni come la signora De Luca, con due figli grandi ma senza lavoro, nessun diritto a un sussidio e una bambina di dieci anni, quelle consegne rappresentavano metà della dieta quotidiana. «Magari mangiavo una volta al giorno – dice – ma i miei figli sempre due». Poi sono iniziati i quattro mesi durante i quali non ha visto nemmeno un pacco, spiega sedendo al caffè dietro la cattedrale. Sua figlia Chiara la ascolta concentrata, assaporando un gelato alla nocciola. «Carne è una vita che non ne mangio e lei anche – aggiunge, indicandola con lo sguardo – Ci farebbe bene, siamo anemiche».

La fame in Italia nel 2014 è un’epidemia non vista, ma non invisibile. È una piaga evitabile, ma non evitata: a Roma, a Bruxelles e a Berlino ha radici e omissioni che vanno aldilà del disastro che sta rendendo l’economia italiana oggi di 230 miliardi di euro più piccola di come sarebbe se tutto fosse continuato al ritmo, lento, tenuto dal Paese fino al 2007. 

Nella richiesta di aiuti che il governo ha spedito a Bruxelles questo mese si legge: «La quota di individui in famiglie che non possono permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni è cresciuta dal 12,4% del 2011 al 16,8% del 2013». Quest’anno sta salendo ancora, stima il Banco alimentare. Sono i numeri di un collasso consumato nella distrazione del resto del Paese: secondo l’Istat le persone in povertà assoluta in Italia, cioè incapaci di sostenere la spesa minima mensile per alimentazione, casa, vestiti, sono passate da 2,4 milioni del 2007 a sei milioni nel 2013. Praticamente nessuno di loro è stato raggiunto dal bonus fiscale da 80 euro al mese deciso dal governo. Secondo l’Agea, l’agenzia del governo per l’aiuto alimentare, gli assistiti con cibo in Lombardia sono aumentati del 26% in quattro anni a 330 mila del 2013: insieme farebbero la seconda città della regione dopo Milano. Nel Lazio sono 425 mila, più 30% nello stesso quadriennio. E l’anno scorso il Banco alimentare, che copre meno di due terzi degli assistiti in Italia, ha dato da mangiare a duecentomila bambini fra zero e cinque anni: è il doppio rispetto al 2007, in un’età durante la quale la malnutrizione può imprimere danni irreversibili allo sviluppo mentale.

Chiara, figlia di Rosetta De Luca, a scuola ha ottimi voti e da grande vuole fare la maestra. Ma non è difficile capire perché sua madre ha smesso di ricevere gli aiuti e ora la manda a scuola senza poterle dare proteine a sufficienza. In tutt’Italia le scorte sono sparite, proprio ora che servirebbero di più. Il magazzino del Banco alimentare della Calabria è quasi completamente vuoto. «Abbiamo dovuto dimezzare quantità e frequenza delle distribuzioni mentre le richieste continuano ad aumentare – dice Giovanni Romeo, il responsabile – Per soddisfare la domanda per intero, dovrei avere almeno tre volte tante risorse». Mentre Romeo parla, una mattina di fine settembre, un muletto sta caricando un pianale di pesche nettarine che erano destinate alla Russia ma ora sono bloccate dalle sanzioni. In un angolo si notano scatole di biscotti con le dodici stelle dell’Unione europea e la scritta: ”Aiuto Ue. Prodotto non commerciabile”. Presto finiranno anche queste, perché le provviste di quest’anno sono falcidiate da una vicenda che ha molti responsabili in Italia e in Europa e pochi innocenti.
Dal 1987 l’aiuto alimentare nell’Unione europea era assicurato dalla Politica agricola comune. Bruxelles comprava le eccedenze, o sussidiava una produzione supplementare, e distribuiva gratis le derrate ai ministeri dell’Agricoltura, i quali a loro volta le passavano alle associazioni caritative. Questo sistema si è interrotto per una sentenza della Corte di giustizia europea nel 2011 prodotta da un ricorso contro gli aiuti presentato dalla Germania e sostenuto da Svezia, Austria, Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Repubblica Ceca. Come si nota dalle dichiarazioni alla Corte, rese nel momento più drammatico della crisi del debito, questi governi hanno sostenuto che l’aiuto alimentare agli indigenti non spetta all’Europa ma ai singoli governi e agli enti locali con i propri cittadini: ciascuno faccia da sé, con i propri sistemi di welfare state. Negli Stati Uniti alla Grande depressione degli anni ’30 si rispose con i “Food Stamps”, i buoni che ancora oggi garantiscono che chiunque abbia almeno da mangiare. L’Italia oltre 80 anni dopo non ha niente del genere, il sostegno agli indigenti può essere zero, e l’Europa ha risposto alla Grande Recessione con una lite sul cibo in Corte di giustizia.

Il programma contro la fame è stato cancellato dalla sentenza di Lussemburgo ma, nella distrazione generale, lo scontro è proseguito. Riducendo altri piani, a parità di spesa totale, la Commissione europea ha ricavato spazio per gli aiuti alimentari nei fondi strutturali. Anche questa proposta è stata bloccata dalla coalizione dei Paesi nordici, Germania in testa, poi si è trovato un compromesso: da quest’anno fino al 2020 ci saranno 3,5 miliardi di euro per il sostegno materiale ai poveri, di cui circa 90 milioni l’anno per l’Italia, e ogni governo provvederà a usarli per comprare beni come cibo, vestiti, libri scolastici; ma i Paesi che hanno già un welfare nazionale efficiente, quelli del Nord, potranno in parte spenderli in modo diverso.

È qui che gli intoppi della politica e della burocrazia in Italia hanno prodotto un passaggio a vuoto in cui, quasi certamente, quest’anno milioni di persone (4 si stima) si sono viste ridurre i pacchi alimentari o le porzioni alle mense di carità. Il vecchio sistema europeo di aiuti in natura infatti è stato chiuso con la fine del 2013, quello nuovo di aiuti finanziari è uscito in Gazzetta Ufficiale della Ue il 12 marzo 2014. Ora spettava al ministero del Lavoro presentare subito un “piano operativo” a Bruxelles sull’impiego di questi fondi, in modo da poterli ricevere al più presto. Il tempo conta. Per evitare un arresto del flusso di cibo agli indigenti, la Francia per esempio ha preparato il proprio programma già da fine 2013, lo ha subito presentato ed è partita con gli anticipi di cassa, senza interruzioni. Anche Paesi con problemi di povertà come la Polonia ha mandato i piani a Bruxelles in tempi stretti.

In Italia invece si è costituito un “tavolo” a fine aprile guidato da Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro, con sindacati, enti caritativi, Regioni, grandi città, l’associazione dei Comuni e vari altri soggetti. La disponibilità di cassa e non più di pasta, scatolame o biscotti dall’Europa aveva prodotto una novità: le amministrazioni più a corto di soldi per l’assistenza sociale, Comuni come Palermo, Genova o Napoli, per la prima volta si sono messi a competere con gli enti caritativi per ricevere e intermediare i sussidi di Bruxelles.
Questa concorrenza per le risorse ha ritar-dato tutto e il flusso di aiuti dall’Europa, cioè gran parte del cibo per milioni di poveri in Italia, si è interrotto. L’Italia non è il solo caso in Europa, è vero, anche se pochi altri Paesi hanno una simile crescita della povertà. Il blocco dei sussidi era talmente prevedibile che il governo di Enrico Letta aveva persino creato un fondo per garantire gli approvvigionamenti di quest’anno, ma non è servito: la Legge di stabilità lo finanzia con appena 10 milioni, un decimo delle somme necessarie.
Ora il piano italiano, dopo una riscrittura in estate, è definitivamente partito per Bruxelles a inizio settembre. Gli anticipi di cassa sono scattati da agosto ma servono ancora i bandi e gli appalti per prodotti come pasta o zucchero. I primi alimenti per chi ne ha urgente bisogno arriveranno non prima di fine novembre, nove mesi in ritardo.

Nel frattempo Giovanni Romeo, a Cosenza, raziona le dosi dal suo deposito: per i suoi 135 mila assistiti, ha scorte in media per un giorno. «Qui non c’è uno tsunami o una bomba d’acqua – osserva nel magazzino vuoto – ma un silenzio assordante». A Milano, zona Gratosoglio, una madre di sei figli, Nunzia Pollo, 36 anni, disoccupata come il marito, riceve aiuti solo grazie a Carlo Marnini, un imprenditore del quartiere che raccoglie in proprio prodotti in dono dai clienti negli alimentari della zona. Marnini riesce a rifornire solo metà delle 160 famiglie che gli chiedono soccorso, dice, dunque decide lui chi gli sembra più bisognoso. Nunzia Pollo per esempio riceve solo un assegno da 900 euro ogni sei mesi dal Comune, nient’altro: cassa integrazione, assegno di mobilità o social card sono scadute o sono state rifiutate.

Questa donna va fuori di sé quando vede che il camion del Banco alimentare porta cibo al convento vicino a casa sua, dove vivono alcuni rifugiati dalla Siria e degli stranieri arrivati da Lampedusa. «Questa cosa arrivo a odiarla», confessa. Anche Cristina Danese, la maestra della Rodari di Milano, sa che la fame può diventare incendiaria se si presenta un politico pronto a usarla per i propri fini. Distribuendo alle famiglie degli allievi il cibo della mensa di scuola, Danese viola la legge. Non è la cosa che la preoccupa di più: «Aspetto solo che qualcuno mi denunci».

"Se i politici conoscessero Roosevelt"

16SET/140

Intervista a Luciano Gallino
Dopo decenni di politiche che hanno soffocato i diritti e le conquiste del lavoro, alla fine il risultato non può essere che questo: lavoratori di 88 anni o imprenditori che vanno fuori di testa”. Il professor Luciano Gallino è netto nella diagnosi sul mondo del lavoro che sfocia nella cronaca nera, espressione di una realtà che non collima con le “riforme”. “Uno dei modi – continua Gallino – con cui è stata camuffata la rimozione di quei diritti, è stato proprio quello di utilizzare, scorrettamente, il termine ‘riforma’. Un’impresa a cui hanno contribuito attivamente le varie socialdemocrazie”. 
Tra i riformatori della prima ora viene indicata la Germania del socialdemocratico Schröder.
Agenda 2010 dell’ex cancelliere è l’esempio più limpido. Viene indicata come la riforma madre eppure il suo scopo è stato semplicemente quello di ridurre il più possibile i diritti e di mettere in discussione il contratto nazionale di lavoro.
Eppure, proprio grazie a Schröder e alle sue riforme, la Germania guida l’Unione europea. 
Chi fa questo discorso non ha la minima idea di quello che succede in Germania. Il successo delle esportazioni tedesche non ha restituito un euro ai lavoratori di quel paese. Gli aumenti di produttività degli ultimi 14 anni sono stati tutti incassati dalle imprese e i salari sono rimasti fermi a 14 anni fa. La Germania ha venduto grazie a questa politica. Inoltre, in quel paese ci sono circa 7,5 milioni di mini-jobs a 450 euro al mese con lavoratori che devono cumularne almeno due per sopravvivere. I lavoratori tedeschi hanno pagato salato i successi della Germania anche con i tagli al welfare, alla sanità, alla scuola.

Lei parla di una serie di guasti accumulati nel tempo. Perché si prosegue su questa strada?

Mi sembra che si viva in una fase forgiata dal credo neo-liberale. Che in realtà si traduce nell’assoluta libertà delle aziende e nella rimozione di qualsiasi ostacolo provenga dai lavoratori. Questo credo, però, ha prodotto un controsenso evidente: si è lavorato per comprimere seccamente i salari che, al tempo stesso, costituiscono circa il 60-65% della domanda complessiva. Una politica che equivale a spararsi sui piedi perché danneggiare i salari equivale a danneggiare la domanda.
Qual è il suo giudizio sul Jobs act di Renzi?

Intanto va detto che ci sono due versioni del progetto: la seconda, di questi giorni, peggiora la precedente. In ogni caso, il contratto a tutele crescenti significa una precarietà perenne perché nessun imprenditore rinnoverà il contratto al termine dei tre anni.

Una misura immediata secondo lei efficace?

Se c’è qualche soldo, magari quelli utilizzati per gli 80 euro, bisognerebbe concentrarsi su un Piano di opere pubbliche assumendo uno, due o tre milioni di lavoratori, mettendoli direttamente al lavoro. È una lezione di Roosvelt ma, ahimé, nessuno sa più chi sia.”

Grecia, la ricetta di Tsipras: "Via i debiti, su le pensioni"


da: http://www.repubblica.it/economia/?ref=HRLV-6

Il leader di Syriza squaderna il piano del partito per l'economia ellenica: una Conferenza per cancellare parte del debito, elettricità gratis ai poveri, su le pensioni basse e lo stipendio minimo (da 586 a 781 euro), via l'Imu sostituita da un'imposta sulle case di lusso, sale da 5 a 12 mila euro il reddito esentasse


MILANO - Alexis Tsipras alza il velo sui piani di Syriza per l'economia greca. E' la prima volta che il leader della sinistra radicale ellenica - in testa in tutti i sondaggi - squaderna un programma dettagliato su questo fronte. E il suo discorso alla Fiera di Salonicco, attesissimo in tutto il paese, monopolizzerà il dibattito nazionale nei prossimi giorni in vista di possibili elezioni anticipate a inizio 2015, quando il giovane numero uno del partito cercherà di utilizzare gli spazi previsti dalla Costituzione greca in occasione della nomina del nuovo presidente della Repubblica per portare il paese alle urne. Se il candidato non raggiunge i 180 voti in Parlamento (il governo Nea Demokratia-Pasok ne ha 153) per legge si va infatti al voto. Ecco il progetto di Syriza per rilanciare Atene.

Il debito

Tsipras ha detto che uno dei primi atti di un suo governo sarebbe la richiesta di convocare una conferenza europea sulla Grecia in cui chiederebbe la cancellazione di buona parte del debito. Atene ha oggi circa 330 miliardi di debiti, la grande maggioranza dei quali nei confronti di Ue, Bce e Fmi. Syriza vuole anche indicizzare il resto dei debiti che rimarrebbe in capo al paese alla sua crescita economica. A livello continentale il partito supporterà sia il quantitative easing della Bce che l'acquisto di titoli di Stato nazionali da parte della Banca centrale. Ultima richiesta, l'esclusione degli investimenti pubblici in economia, per la crescita, dal patto di stabilità.

Misure 
sociali
Il programma di Syriza prevede la distribuzione di energia elettrica gratuita a 300mila famiglie con i redditi bassi cui verranno garantiti anche buoni pasto. Sconti anche per gli acquisti di medicine mentre per oltre 1,2 milioni di pensionati che prendono meno di 700 euro verrebbe ripristinata la 13esima cancellata dalla Troika. Previsto pure un piano di rate per rimborsare i 68 miliardi di arretrato del governo con le imprese, assieme alla creazione di una bad bank per i prestiti in sofferenza. La nuova tassa sulla casa imposta da Samaras, invece, verrebbe cancellata per venir sostituita da un balzello per gli immobili di lusso, mentre si alzerebbe da 5 a 12mila euro la fascia di reddito esentasse.

La crescita

Syriza alzerà lo stipendio minimo da 586 a 751 euro al mese, utilizzerà 5 miliardi (in parte in arrivo dalla Ue) per un programma choc biennale per far crescere il lavoro: obiettivo 300mila nuovi posti. Via anche a una banca pubblica per sostenere con prestiti artigiani, agricoltori e piccole imprese tagliati fuori oggi dal credito. Quest'operazione sarà finanziata utilizzando 3 degli 11 miliardi accantonati oggi come cuscinetto per tappare eventuali buche delle grandi banche nazionali. I soldi per finanziare il piano dovrebbero arrivare anche da un giro di vite sull'evasione e il contrabbando di benzina, con 3 miliardi di raccolta prevista in 5 anni, anche se non si spiega con che mezzi si contrasterà l'evasione.

E speriamo che Tsipras ce la faccia!

Disavventure alll'aeroporto Leonardo Da Vinci

Non si capisce chi abbia pensato il parking e la viabilità di Fiumicino (aeroporto): da 30 minuti di sosta gratuita si è passati a 20 e ora a 15.

Infatti il parking è proprio usatissimo!

Tutte le macchine dei privati che debbono aspettare i passeggeri puntualmente intasano le uniche due scarse corsie che sono state loro riservate (un casino totale!) e non ci sono bussolotti di cemento che tengano per fermarli perchè giustamente appena scattano i 15 minuti il costo del parcheggio è un salasso!

Ancora una volta i servizi sono contro la popolazione e la popolazione ormai non ce la fa più a prendere botte in faccia.
Possibile che un sistema umano, civile e non per forza costoso non sia immaginabile?

E poi ma per quale ragione si deve per forza andare in macchina a Fiumicino?

Se ci fossero autobus, metro e treni che funzionano e che fossero solleciti ma chi andrebbe in auto?

Forse sarebbe il caso che all'aeroporto di Roma si ricordassero che siamo nel 2014 e che è un diritto arrivare con tutti i mezzi e arrivare serenamente e non avere lo shock culturale di essere un paese sprovveduto e impreparato a tutto.

 Ecco è proprio la serenità che manca sempre a Roma: ogni cosa da prendere il bus a fare una passeggiata in centro, da andare a Termini o a Fiumicino è un'avventura. Non dovrebbe esserlo.

E poi ma che figura del cacchio!